I giovani di Muti e i cattivi maestri
di PAOLO RUMIZ
(Messaggero Veneto, 7 dicembre 2009)
In una notte fredda di stelle ho sentito l'inaudita potenza che Riccardo Muti ha spremuto da un'orchestra di giovani italiani l'altra sera al teatro di Udine. Era una messa per defunti, ma paurosamente carica di vita nonostante la presenza della Morte con la M maiuscola.
Da non credere: il terribile "Confutatis maledictis" del giudizio pareva una romanza d'amore e il coro sprigionava zampilli di gioia dopo gli assoli funebri del basso. Musica napoletana (Paisiello, secolo XVIII), terrona e geniale, quintessenza dell'Italia migliore, con cui il maestro - in un formidabile contrappasso - ha infiammato una platea di padani, a ricordare che siamo una Nazione. Ma la cosa più impressionante della serata non era la musica. Era il confronto fra l'età media del pubblico in platea (sui sessantacinque a occhio e croce) e quella dei componenti dell'orchestra giovanile Luigi Cherubini (trent'anni o giù di lì). Mio dio, mi sono detto mentre le luci si spegnevano, ma nelle poltrone ci sono solo vecchiacci come me. E quando ho alzato gli occhi e ho visto che persino il loggione era "geriatrico" allora ho capito che ciò che vedevo, con un tuffo al cuore, era semplicemente la misura demografica dell'imbarbarimento culturale del paese. Era una diserzione generazionale. Trent'anni fa i giovani avrebbero fatto a pugni per conquistarsi uno strapuntino a una serata simile. Ora era tutto finito. Anche se un posto negli ultimi palchi costava meno di uno sballo in discoteca.
E così, tra un Requiem e un Christe Eleison, ho cominciato a pensare alla differenza tra i giovani presenti sul palcoscenico e quelli assenti in sala. I primi erano una confraternita di gioia, incanto, invenzione, follia, ma anche di rispetto, disciplina e senso della gerarchia. Quei ragazzi erano tutto ciò che ci è stato tolto in questi anni di dissipazione. Erano canto, allegria, gusto della condivisione e ciò in un paese che non canta più, si barrica in casa e invoca le ronde contro i forestieri. Fuori da quella sala, invece, c'erano troppo spesso ragazzi soli, abbandonati, curvi su Facebook o a cercarsi come lupi nella notte digitando ululati via sms. Dimenticati da noi nel paese dei balocchi, un mondo artificiale allestito per mascherare il saccheggio. Giovani allo sbando, senza un esempio, una guida. Privati di quello che una semplice e antichissima parola è capace di riassumere. Un maestro.
Ed ecco che in quel teatro, sotto le stelle delle Alpi orientali, il contrappasso si precisava. L'uomo in giacca nera che dirigeva orchestra e coro con il lampo delle sue occhiate e scuotendo la sua chioma brizzolata era appunto l'entità inestimabile che mancava a giovani rimasti fuori al freddo: il maestro. Non semplicemente un direttore, ma uno che insegna a salvare il salvabile, a resistere allo sfacelo dei tempi. Un costruttore di valori. Lo capivi dai gesti, dall'economia dei movimenti. Muti non aveva bisogno di sudare e sbracciarsi. A quei ragazzi italiani bastava un'occhiata, come ai Wiener Filarmoniker. La musica era il prodotto di una concentrazione assoluta e gioiosa e il palcoscenico era una splendida raffigurazione di un'arca, salda nel temporale del Diluvio. Giovani strappati all'uragano, all'esilio in terra straniera, al precariato.
Viviamo un tempo che odia i maestri, li sottopaga, li umilia. Non è un caso, perché oggi trionfano i cattivi maestri. Li vedi concionare dappertutto in televisione, superpagati, urlanti, volgari, sbracati. Basta uno zapping di cinque minuti per ritrarsi orrificati da schermi digitali pieni di rumore e di nulla. Un nulla e un rumore indispensabili a fare di noi acritici consumatori di porcherie, ebeti divoratori di immondizia allineata sugli scaffali. Per questo si sono distrutti l'incanto, la gioia, la follia, il rispetto, il canto, il gusto di stare assieme. Stiamo diventando animali da cortile, come nella fattoria di Orwell, con la differenza che ai tempi di Orwell esprimevamo una residua capacità di indignarci. Oggi il cattivo maestro ci ha tolto anche questo. Ci ha mutati geneticamente, resi indifferenti allo smantellamento della res publica. Una generazione perduta, forse due.
In camerino, dopo un'ora e quaranta di musica e una salve di applausi come cannonate, Muti si distendeva, rubava una sigaretta proibita e raccontava storie distillando pessimismo, attenuato da una garbata ironia, sull'andazzo dei tempi. «Questa partitura di Paisiello, una meraviglia dimenticata per decenni... Ah, la grande scuola napoletana... ha ispirato i tedeschi... ma noi ovviamente non lo sappiamo... già allora ci vendevamo tutto...». E mentre nei corridoi del Giovanni da Udine sentivi il rompete le righe di coristi e orchestrali, allegri come una scolaresca a fine lezioni, Muti sorrideva felice di questi giovani, bravissimi, «capaci di intendere i segnali della mente, senza restare alla superficie del gesto...», talenti che un'Italia matrigna dimentica e spesso condanna all'esilio.
«Ho detto loro: "Ragazzi, guardate che anche dopo queste mie lezioni dovrete continuare a rigar dritto... io vi perseguiterò anche da morto... Sapete, sono brutto da vivo, ma da morto sarò ancora più brutto e verrò a trovarvi per controllare cosa fate..."». Così concionava, mentre la sigaretta faceva salire al soffitto un filo azzurro di fumo e la sua voce baritonale tuonava beffarda come per accrescere lo spavento di quella visione ultraterrena. «Un giorno, durante le prove, mi sono accorto che un orchestrale leggeva un libro per ingannare il tempo tra due interventi distanti una ventina di minuti. Alla prima pausa gli ho detto: "Spero che si tratti del testo latino della messa funebre". Risposta: "No, maestro, è un libro giallo". E io: "Peccato che questo la renda insensibile al giallo della morte..."».
A un tratto, in quel camerino del Giovanni da Udine, ho capito. La parola "maestro", l'unica che Muti accetta come dovuta, non era affatto ornamentale od onorifica, ma maledettamente concreta. Era il riconoscimento di un mestiere che l'Italia ha smesso di onorare. Un mestiere verso il quale, da parte dei giovani dell'orchestra, non vi era paura ma rispetto e intesa. Un rapporto costruito sulle regole, ma anche sulla formidabile empatia della musica. Allora mi son detto: beati quei rari paesi che hanno al governo scrittori, poeti o musicisti. Chissà cosa accadrebbe se, in un attimo di sana follia, l'Italia di questa mia generazione fallimentare delegasse il potere a quei trentenni sul palco. Forse i giovani lasciati soli nella notte fredda avrebbero qualcuno in cui riconoscersi. Ma è proprio questo, temo, che non si vuole.
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